mercoledì 29 novembre 2017

Diario di Passaggio (Arancione 5)



Anna sbalordì l’aspettativa
modulando al sembiante del cipresso
una lapide per sé attante incompresa
di una tragedia avverbiale, circostanziale
quindi scomoda allo strutturalista.
Era la nostra anima, Anna,
scorrazzare con anemia in vena
avete impedito
al fiore il suo stelo
al gambo il suo petalo, ma eravamo noi
i colpevoli
nel momento in cui cessò la forma sua
in un canto andante.

Anna, avremmo detto, non è esistita mai.

Nel frattempo i leoni, in quinta casa,
si immergono dal dio del mare
per aver detta
l’ossessione che hanno 
a polluzione e grandi e piccole labbra,
incatenati come prometei al monte.

Sarebbe necessario non compromettere
l’altisonante grido di gazza dal lungo ramo.
Dice che abbiam perduto l’occhio veggente,
era di una configurazione inespressibile
al contenuto carnoso di Madre Io.
Sarebbe altresì necessario non compromettere
la sua piuma coperta di grasso,
il suo osso cavo
nell’informarla che il collo suo
sarà tradito alle spalle
e spezzato di netto.

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Sappiamo solo che Bob Dylan
sopravvisse tantissimi dei suoi
necessari apprezzatori.
Sà! Noia fa rima con
elementale prassi del numero 0,
matto vagabondo scacciato via
da un etnocentrico canone
per essersi azzardato a bisbigliare
mentre gli altri urlavano.

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Posto un cammino di pietre tendenti
a colmare lo spazio tra il 2 e il 3,
alla fine di esso vi è una stanza tersa
dove il dono della morte può essere
finalmente ricordato per intero.
Ci si giunge sul dorso di un alce
ben stretti alle sue corna legnose
fino a passare un grande arco di pietra.
Lì sono gli alberi panciuti e amichevoli
in quanto inconsapevoli
del pericolo di comparire invertiti
in un occhio umano,
in un occhio moderno.
Sempre lì, qualcuno toglierà
il carapace della tartaruga dal muro
e con uno scassino scastonerà
tutti i gioielli che il negromante
aveva lì incastonati
al fine di provare ermetico diletto
nel sentirsi dispari e decadente
rispetto alla simmetria di una natura
né pari né dispari.

Poi gorgogliò quell’oca gigante soffiante
rinchiusa in un orto botanico
ribellandosi al non aver neanche saputo
della sua vita circolare,
circolare il laghetto muschioso
che le fu dimora.

Furono ciglia, e dunque il ‘900
aveva solo vent’anni
quando si autotrafisse con la bomba,
il grande ‘900 che in tutto dovette
esacerbar nient’altro che scienza
e positum come opposto a negatum.

Nell’altra stanza invece piange l’Asia
e il suo risciò di mille colori
e i suoi sutra incartapecoriti
nel muro di Dunhuang.

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A quel funerale comunque
c’erano tutti.
C’era De Andrè, sillabato
con odio e rimorso
dal ragazzo lavico
ma c’era anche Tenco,
e c’era il Vulcano dietro come un Dio;
lo sciatto serpentino mugugnare di Magog
invece era nella bocca del clero di S.Alfio
e nella loro muffa demoniaca
di liturgia in toga viola e oro
tra i fumi dello storace.

Finale:

Mattia Mannino aveva schifo tremendo
a vedere come il secondo genito di quella famiglia
tranquillamente
accorciava le unghie dei suoi alluci
direttamente mangiandole.
Però risero tanto lui ed il suo amico Michel
e anzi provavano una certa invidia
nel non riuscire a fare a meno dell’inibizione
nella cresta o nella leccata di vacca sulla fronte.

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