sabato 4 maggio 2024

Antologia nuova

 

Molecole

 

Riflettendo su ciò che è nello specchio

e nella luce, una manciata di molecole

si guarda e sceglie.

Ha esaurito le cose da fare,

si è ritrovata a guardare

da una finestra

un fiume lontano, un monumento,

un ponte.

 

Timidamente esce di casa,

mette fuori un piede – un altro

agglomerato di molecole –

e riscopre nel circostante

qualcosa di croccante,

carico di informazione,

di accrescimento,

di scambio,

esteso per infinite ed infinite lande.

 

Giunta a destinazione è sudata,

carica di aspettative,

affamata di avventura,

e subito dirige

gli specchi degli occhi

verso i suoi simili

come si lancia una rete

nel mare.

 

Un’altra manciata di molecole 

che non riusciva a stare zitta

si trova in un lungo istante

ad esser guardata, contemplata

d’improvviso.

 

E cosa dirà, pensava la prima,

quale suono in quei respiri

le cui vibrazioni svaniscono

nelle più grandi di una musica

robusta e barbara

che spinge dalle casse.

 

Ora le manciate sono dentro a un capanno

e si osservano dialogare,

tutti attorno ballano,

le loro mosse hanno a che fare

con sfere invisibili

destreggiate tra le mani,

alcuni scavano coi piedi

muovendoli

come si muoverebbe

la lancetta di un tachimetro,

altri trotterellano sul posto

tracciando prossemiche,

invadendo prossemiche.

 

In un mondo dove niente si assomiglia

manciate di molecole

sentono che non riusciranno a riprodursi

per tempo,

che non conosceranno

le mosse del ballo,

come preparare un nido,

e in mezzo a tanto fumo,

circondati da una gioia violenta

il capanno di travi di ferro a vista

è nient’altro che un ventre

vagabondo in un parcheggio grigio

dove le energie si mischiano

in spazi elettrici e vuoti

tenuti insieme da molti nuclei

costretti a incontrarsi.

La manciata di molecole

inquadrata all’inizio

cerca un accendino

pur avendolo in tasca;

attratta dalla luce del lampione

schiva i corpi che nel frattempo

danzano sinuosi,

fin quando si trova

spremuta fuori. La notte, quanto l’ha temuta

quando non poteva domarla

per i troppi predatori

o per la timidezza.

Adesso è un invaso di silenzio

e acque buie

nel più vasto oceano

sfiorato da bagliori siderali.

 

Due manciate accanto

si sussurrano

in cappotti lunghi e bruni.

Avranno un accendino?

E da questa scusa blanda,

nascerà un contatto?

Si riconosceranno parte

dello stesso vinile?

 

Con brevi sorrisi, però,

pure densi, si ritraggono,

e la serata finirà per ognuna

in maniera diversa. La manciata

guardata dalla prima, all’inizio,

ad esempio, mossa dalle anfetamine

riderà, le tremeranno le mani,

se ne uscirà con una verità cosmica

definitiva, sebbene solo

per la durata di qualche minuto;

a casa s’addormenterà

col cuscino tra le gambe

e musica lo-fi di sottofondo.

Molte non si rivedranno mai più,

o si rivedranno senza riconoscersi,

e tra queste alcune rientreranno

in bici domandandosi la funzione

della notte, di quella notte,

nei confronti dell’infinito

macroscopico in cui

avevano navigato

sospesi incalcolabili

minuscoli,

ma concreti. 

 

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Hasuganomichi

 

Lunga strada verso la primavera,

passa il treno, sgombera il paesaggio

dalla fermezza, annacqua il paesaggio

in macchia confusa.

Se qualcosa si riflette sul vetro

e se quel qualcosa sembra uno sguardo

e giusto ad esso abboccare,

e giusto in esso precipitarsi.

 

Ti ricordi che tra i banchi

tirava corde lunghe una classe

dai suoi occhi alla tua testa

che non si è girata mai

per ringraziare?

 

Lo fa ancora, dico,

pretendere dalla faccia degli altri

una corda, un getto di luce,

un dardo, una cosa impossibile

come una verità.

 

Lunga la strada verso la primavera,

la stazione avrà il nome della primavera, 

passa il treno, corre il treno,

si allunga il paesaggio,

tutti impiccano il vecchio sé

se non riesce a soddisfare

il cangiante modello: non un odore si sente.

A volte, un sorriso.

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沈む[1]

Oh, 関西[2], e mare che ti circonda

imperituro,

voce nell’ovunque distesa:

ogni equipaggio è perduto.

 

Vestiti di marrone o spesso di nero

gli umani combattono il titano della faccia

e perdono man mano molti ricordi,

prima indispensabili filamenti

d’allegro cane

sparpagliati ora

come brina nel vento

o abbandonati sassi

in grande ombra.

 

Sinuoso corallo i tuoi seni,

due acciughe le tue labbra,

grande polipo il tuo sesso

occhi di bue perlacei le cosce

danzavi

e io divenni sale,

erosione,

contesto innamorato dell’incomprensibile.

Non possiamo indovinare la tonalità

del flauto del sole,

l’orchestra di luce frastagliata

demone blu

sulla cresta dell’onda.

 

Giganti misurarono

le tue acque in nodi,

plancia di ferro

sguardo rosso e fiero

lentiggini le ruggini

sul volto appuntito.

Orgogli di marinai morti

e dei cantieri navali,

armati di tutto punto

per una guerra

che sembrano ancora aspettare,

corazzati e sordi 

alla natura della marea

della salsedine che li consuma

e li ingloba.

 

Quel riflesso arcobaleno

che sul pelo del mare si scorge

è vomitato petrolio, sì,

ma ha un che di grazioso.

Natura che natura muta,

e noi, colpe sofoclee

con destini appuntiti come prue:

tutto si prova a trafiggere

per trovare il proprio riflesso,

o関西.

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布引滝[3]

Poi dea d’acqua,

saetta di fiume 

affronta la roccia

e se nell’impatto continuo

con fragore si baciano e stringono

possono capirsi l’un l’altra.

La terra è destinata a essere

solcata

con lentezza.

 

Si è disegnata una specie

di fica, nello stagno,

e dunque la paura degli altri

e delle loro voci,

l’impulso a nascondere

il cuore

trovano giusto compagno

nel moto a spirale di foglia,

nel circolare specchio del lago,

nel legno.

 

Tra i cuccioli della cinghiala

il più spigliato e curioso

è scivolato, ha battuto

la testa

ed è morto.

Anche gli animali sbagliano.

Il cadavere del piccolo

ha una tomba d’acqua e foglie;

filtra, una morte non vista,

ogni purezza cristallina

e il batterio originale

che l’abitava

s’è liberato

e corre

dalla sorgente

alle vostre gole secche.

 

Intarsiata

di rosso acero e giallo ginko

una stagione bellissima

volge al termine.

 

 

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Di alcune cose tra cui Amaterasu e Hiroito

 

O mostro del 2019,

anche l’ultimo degli Ainu

se ne è andato,

dice il giornale,

ed ogni loro freccia avvelenata

l’ha spezzata Amaterasu, 

ed ogni loro pianta officinale

l’ha mangiata Amaterasu

per trasformarla in ciliegio

educato ad esibire fiori rosa

nello spettacolo liberale

d’una primavera

geneticamente selettiva.

 

Ci fu un giorno in cui Hiroito

lesse a tutti, a malincuore,

una poesia di MacArthur.E provò a non dire

a un popolo inventato

adesso in lacrime

che doveva fare un passo indietro

e svestirsi di sua madre Amaterasu,

che doveva disincarnarsi,

rinunciare ad esserne figlio e,

androgino, ad esserla.

 

*

O mostro del 2019,

la storia è l’evidenza

d’un’inarrestabile necessità

e interminabile danza.

 

Ci vuole un orecchio enorme

un cuore meditativo

per abbassar lo scudo

alla travolgente odissea,

polimorfa come il suo eroe,

vaga come il suo incipit,

essenziale come mani di Virgo.

Ci vuole un peregrinare continuo,

una strada, dei piedi

di fatica e ardore,

degli occhi che non sono occhi

per osservar

con mente vuota

un solo giro del gran meccano attorcigliato

di quanti e sospiri. Oppure è sempre stato

ben in vista,

e un giorno forse

vedremo il delta

delle vene

del mondo.

Suggerirà l’acqua

come sublime

eterno

ritorno,

la foce come tuffo

verso una risposta

incomprensibile,

le parole come

un gioco

del buffone di corte. 

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Nishinomiya no Ebisu

 

Nella calca una bimba mordeva

una seppia arrostita,

una donna urlava “Okonomiyaki”

tra Umeda e Kobe

un ragazzo aveva del gel tra i capelli

ma tutti quanti ci muovevamo all’unisono

serpentini

verso il grande Tonno.

Oh, Ebisu, che in questo

pesce enorme, trafitto

e spezzato in coda

sei manifesto.

Prendi i nostri soldi,

salutaci dalle lattine di birra,

proteggi, proteggi, proteggi

l’errore necessario

dilagante

dell’accumulo

e del consumo.

*

 

Nella liturgia del dio-pescatore

c’era odore di carne e di pesce,

tutt’a lui intorno

ristoratori e tendoni,

circensi, giostrai,

donne affamate, cuoche,

gonne di velluto,

bimbe, mele candite.

Noi due, Europa orgogliosa,

provammo a vedere il Giappone

per com’era, tentando

invano di disperderci,

di sviare in un giardino urbano,

in spazi menomati e reticolari

identici in ogni metropoli:

si accettò lucidamente

la storia, e non più

il suo decadimento,

anche perché

non si riusciva più a capire

da che luogo

potesse mai cadere,

da che condizione

decadere.

L’universo fu allora un’evidente

geometria di segni vuoti

determinati dalla posizione

nella struttura,

ma nel particolare

c’era la festa del dio Ebisu

nuova e antica

e i sapiens sapiens

lanciavano monete

da palmi sudici

sul cadavere del grande Tonno.

Sarebbero state per lui nuove squame

di bronzo e oro e argento

mentre sul fianco

volgeva via lo sguardo

oramai diventando

punto di sordo silenzio

divorante generante

ogni tintinnio ed ogni chiasso.

 

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Shissō

 

Poi risalendo la collina

esplodeva il mondo interno

e tutta la sua rabbia

in superbe lacrime

rappresa.

 

Perché tutte le esperienze venivano a galla di colpo

come un singulto

e perché le scarpe avevi perso in sogno

nella linea di scoglio e alga

sulla soglia di una sfera litica

sospesa galleggiante

nell’acque del mare.

 

Alle pendici del monte 六甲[4]

trovaste brevi fiori

diramantisi dalla terra franata,

e tra le mani

li conservaste a lungo.

Strapparli alla natura

per salvarne le sembianze…

lei disse di sì, e non se ne parlò più.

So solo che le vostre ciglia

erano forse troppo impegnate

a sfuggire la morte

per cogliere lo schema

e godere del bel vento

della bella terra

muti come attimi,

peli irti a una corrente maestosa.

 

Ecco, il piede è scomparso

dietro l’ara del tempio

nel fitto boschetto

dimora di energie

mastodontiche e chete

dove neanche il monaco

può entrare.

Fede e mistero volendo,

una campana tintinnerà

un altro yen cadrà nella cassa di legno

iridi serpentine vedrete brillare

dall’oscurità ricolma di tracce e segni

in cui vi inoltrerete,

e mai più tornerete.


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Via degli Dei

 

Ognuno mosso dal desiderio

argina con le gambe

il fiume della terra

per porsi

sghembo e vacillante

verso l’ebano 

della foresta

degli eventi.

 

Sandalacci, daghe, gladii,

armature d’acciaio, spicule,

le spugne imbevute di posca

sull’antica Flaminia

e sferraglianti legionari

indirizzati al castrum.

Ne senti ancora il sudore

se solletica l’imago al dunque

nella fame di irrealtà

e aleggia quale ectoplasma

ed è fatto dei ricordi della vita stessa

lasciati impressi

su ogni sasso.

 

Ricordi che guarda caso

sono anche i tuoi.

 

Ognuno mosso dal desiderio

argina con le gambe

il fiume della terra.

Cammina,

e come una lunga strada

è camminato.

Tutto è animato e si immerge

nell’apostrofo del tu, del lui,

del lei e dell’io,

commosso e attraversato

come ramoscello da acuto becco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Civita

 

Pallida versione stilizzata

di ragazzo dinoccolato,

ossuto nel sole,

raccoglie qualcosa da terra.

 “Sono ricco!” esclama

tra le meduse

dipinte a bomboletta

sulle alte mura

della civita.

Poi gioca

col resto della stirpe

a far passare

la ruota di un passeggino

tra i fili elettrici e il muro

come in un antico sport azteco.

 

Poco più di settant’anni fa

cadde una bomba

e lasciò nella piazza

una pancia cava.

Ma i marinai continuarono ad abitarla,

E i gatti proliferarono attorno

al pesce

e tutto fu dipinto di azzurro

e adornato di reti

e di umiltà

e di violenza a palate.

 

La civita si è poi fatta gorgo

divorato da catrame

e salsedine,

le sue case strette

rimangono antiche,

le vie piccole

e balorde, abitate da

bimbi di idiomi assurdi,

tentativi di famiglia,

madri bambine

e uomini unti e disidratati

che borbottano ancora

i nomi degli amici morti

e girano intorno

indicando con le dita

i cadaveri dei ricordi.

 

Uscendo verso gli archi della marina

puoi incontrare

Ferdinando I, re delle due Sicilie,

e non è facile riconoscerlo,

non ha più testa

né nome

la sua effige 

di marmo

impastato

con pestilenze aviarie

quali merda di colomba

sul panciotto.

Si è sbagliato di grosso

se pensava 

al suo volto

come ben posizionato

sulla statua che l’avrebbe ricordato.

L’acefala fisionomia del suo carisma

indica in un chiasmo fluido

l’albero rosso,

alcuni dicono

che una volta lì

bruciò un barbone

e per te brucia ancora.

 

Giri dunque a destra

attraverso Porta Uzeda

verso l’urna

barocca e greca

del duomo, caverna scura

dove in segreto

si celebra il potere.

Rinchiuso lì dentro dall’88

alla mercé d’un lusso che aveva rifiutato

c’è Dusmet vestito

da negromante.

Non combatteva forse

per la luce?

Con una flatulenza indecorosa

uscitati dall’ano

forse per le troppe aspettative di tutti

lo saluterai

quale tuo antenato, e gli dirai

mi piacciono le sue mani morte

e il porpora sul nero

assai le dona.


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Volontariamente definita persona

 

e incastrata nelle reazioni di chi si è difeso per troppo tempo

ora dubita financo della realtà, quando è esterna,

e si calma in un ventre pietoso

e spesso ansima al pensiero

del sistema

e scherza col timore di morire.

E dice nel pensiero a un’altra cosa,

volontariamente definendola

parte di sé e persona,

di costruire e produrre,

di percuotere il corpo affinché suoni bene

affinché produca, produca e funzioni.

Volontariamente definita persona,

ma automatica,

e sempre albergata da un rimasuglio

di infinito

quale un’orda di innominati

che urlano dal fondale

e non sentono ragione alcuna

e amano una luce che mai hanno visto.

Quella luce, dico.

Quella che non fa che sorgere,

intravista

in un racconto di Parise,

esagerata in tutto il suo splendore atemporale,

sorda a noi, magma e roccia fusa

nel magma (che poi è lei stessa).

 


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Le vacanze

 

Oltretutto, avevamo anche considerato

di meditare sulle quattro verità,

di perseguire la buddhità

con le birkenstock sulla ghiaia.

 

Molti dei bambini che partirono

alla ricerca di un dinosauro perduto

ricordano oggi di non averlo

più trovato, seppellito

nel parchetto,

e se li guardi

sono lontani più che mai

anche nell’insieme.

 

Sott’acqua stamattina

c’era il corpo

d’un occhio di bue,

riflesso prismatico

nel baluginare

del sale marino; 

più in là un tentacolo di stella

stava adagiato inconsapevole

su un per noi trono.

Saremo tornati a riva

invasati dal caldo impietoso

non più diluito

dall’onda:

i veri soli

eravamo noi,

cocenti, frapposti

per brillare meglio,

impossibilitati ad ascoltare

in un agone di raggi 

sempre più viola.

 

Capirai…

 

Tutta questa luce può solo

offuscare,

rinsecchire la mano

che ricercherà

la mano.

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19/11

 

Parole dalla bocca

come piombi da uno schioppo,

pensava, lui. Litigarono,

per giorni, e per giorni

diedero calci e pugni

da mangiare

al cane in loro.

 

Una notte trovò il letto già caldo

dal suo lato – riscaldato per lei

col calore del corpo –

e vi s’infilò

accompagnata dall’odore

di una musica araba;

si erse una serpe

si erse ma non trovò che porte

chiuse

e ritornò nella sua cesta di cotone

più sola e intontita che mai.

 

Al mattino un uomo si ritrovò

incazzato sotto la doccia,

pronto a crescere – diceva-

pronto a tagliarsi i capelli. 

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[1] Shizumu, “affondare”

[2] Kansai, Kansai

[3] Nunobikidaki, cascate di Nunobiki.

[4] Rokkō