giovedì 7 settembre 2017

Pantalica ( o poesia per Cormac in contumacia)



Vipere e fichi, nottonette.
Alla ricerca di uno scorticamento
in vista di aver trovato sé, domani eterno.
Lentamente abbiamo appreso
come camminare tra le donne
in completa sintonia
con la loro sinuosa malinconia plumbea.
Alla ricerca di uno scorticamento
per evincere nella pazzia di Aiace Telamonio
un gesto sublime,
nell’ecatombe di pecore per pazzia scagliata da Atena
l’evidenza del suo sforzo sacro
-onore, lancia e scudo persi ad un giovine Odisseo-
e con essa la necessità di non reprimere mai più
la pancia, il sole, il leone.
Insomma tale appare la fatica di determinare
forme e colori di un brandello di pietra
perso in palude tra rane
e ancora vipere e fichi, e nottonette.

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Pensavo: teniamo l’esclusiva del presente.
Lo compongono occhi, naso, lingua, dita, orecchio
e sesto senso,
soffocando (per tenerlo fermo) a tutti i costi
l’idea
che fossimo noi Pantalica
e la sua negromanzia di necropoli
e la sua greca separazione di massi bianchi enormi.
Abbiamo ascoltato la sostanza dei sogni
che comunicava imperterrita: trasformati, muta forma,
avvelenati e guarisci, ma
il dissidio aveva origine nelle radici, nell’impugnatura
del calice pagano, nelle ossa.
Lì si sta immobili e non si partecipa
alla grassa abbuffata del Tempo
che fa invecchiare la pelle e il capo.
Così questi levrieri corrono
strappandosi tra il segno che lasciano
e la nera occulta ripetitività ieratica
della polvere della corsa.

Ultima poesia per Cormac.



Cormac caro mio, rilegato in verde ed oro,
ti ho donato un’anima con la mia volontà,
ti ho fatto dono della mia anima sdoppiata
e sei bello, nonostante tu abbia corso il rischio
di alterare le tue percezioni
sembri sano come un pesce
anche se dai albergo ad un insolito male.

Comunque, oggi ho camminato tra gli eucalipti
e la merda di cavallo, Cormac,
ridevo.
I miei bisogni sono quelli di un cucciolo di cane.

Danziamo a vibrazioni troppo violente
e alcuni uomini non riescono a seguire
il ritmo ,
sulle gobbe come dromedari
c’è il peso d’un passato
gigantesco e mutevole.
Percorrendo la linea più lunga
sulla mano
evolviamo la corazza
e ci separiamo a tenuta stagna.

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(22 agosto)

Splash-scherzavo.
Ho scritto solo la verità,
travestita da lirica
ho composto
la verità e nient’altro,
l’ho capito ricevendo
forza flessa
dalle dita degli amici
e dalla bocca.

Sì, ai posteri. A chi porterà questo nome: “distruzione”:
Mi sono sentito tradito, abbandonato
dalla mia compagna
prima di comprendere cosa fossi:
una pietra, uno scoglio,
un lupo di marmo.
Ed amarsi è come offendere
chiunque altro
all’infuori di me e di lei.  
Un altare immenso
ad esso è facile affidare
lo scelerato dilaniamento dell’energia
sublimata nel giglio, nel fiore dell’aglio,
eppure il calzino benedisse ancora
di essere stato spaiato. Era la conseguenza
d’aver crollato con i pugni chiusi
la casa del Nespolo
per conseguire il cieco ritto monito
di diventare sé,
di attraversare la spina colata di venenum
oltre.
Così si lascia terra bruciata al passaggio
del proprio destriero infuocato,
intendendo dire che il ricordo
è un pusillanime pezzo di eterno ritorno vaporoso
e ruota troppo lentamente
per la velocità oscena dei cicli e dei ricorsi nostri.
Così si lascia terra bruciata al passaggio
del nostro destriero di fiamma
perturbando il faggio, il cipresso
con la nostra volontà ossessiva
di determinarci
un desiderio alla volta
come fossimo il risultato e basta
di un unico infinito spasmo di bacio
e dolore sacro
alla ricerca narcisa di uno specchio,
con ciò intendendo l’altro,
l’infinita probabilità dell’altro all’infuori di noi.

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(il clan, pt.2)

Poi parlammo a lungo del clan
dicevamo che avrebbe retto,
che se il bene ed il male, melodie,
non fossero appassite
nella vana ubiquità dell’io
o nella vena morta della vita quotidiana
allora ad ogni rincontrarsi
le cicatrici di ognuno si sarebbero riconosciute
ed avrebbero emesso un tenue bagliore.

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È stato sincero e l’ha lasciata lì, ad Acicastello,
davanti al mare.
È stato sincero e con palpebre dimesse
le disse che non era innamorato
e che un avvenire avrebbe portato alla luce
nuove ombre sotto toraci e seni
sovrintendendo il dominio del tempo
restando immobili faccia per terra
per una buona volta.

La nostra generazione, nel mentre,
era su un letto
da sola
ad ascoltare xilofoni, lo-fi e synth dolcemente molli
tentando di soffocare il ricordo di essere nati e cresciuti
tra la fine del boom economico e l’avvento
dell’homus tecnologicus.
La nostra generazione, nel mentre,
era su un letto
da sola
ad ascoltare Echoes
tentando di soffocare l’idea che la resa
ci era stata già imposta
le bandiere bianche già consegnate
da navi ammiraglie a largo d’ogni mare. 
Restavano impulsi al posto di comunicazione,
spesso,
dunque fraintendendo carnalità con distanza, desktop,
ed antropos fu triste, lasciato lì diverso da tutti
cancro inadattabile alla natura verde.

venerdì 1 settembre 2017

Il Clan o penultima poesia per Cormac



Clan azzannato, sparso,
anime che come onde concentriche
nate da un punto solo
s’allontanano.
Lasciati nudi in viso al mare
che è un calmo rimasuglio di bisogno.
Emozione abiterà corpo
fino a renderlo cavo,
tale la conchiglia nostra.

Poi parlammo a lungo
dicevamo che il clan non avrebbe retto
che la libertà individuale
non si sarebbe armonizzata a vicenda

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Piangeva portava una parrucca
una bella donna davvero,  
non credeva più nel signoruzzo

Poi, dopo, un altro uomo
sul palcoscenico si coprì gli occhi
con la mano
e disse importantissime parole dimesse,
fu triste e poi fiero.
Fu triste e poi fiero
e non sapeva che danzando e guaendo
stava arriminando pesantemente
vite future lontanissime.
Così decise di morire prima dei trentanni
a Parigi.

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Il clan: vergogna e stamina,
pose da teatro.
Cantautori pregiate le grinze argentate
della nostra seta
che non esiste.
Balcone o sbarre
e poi l’oceano,
alcova impestata di terra al di sotto.

Ti stupreranno, ti porteranno via
il battito cardiaco
ti riassorbiranno
nel girone d’ogni Metropoli
del mondo,
ti faranno schifo le sigarette
o le amerai,
l’otre piena di vino
avrà acerbo dolce sapore
e bizzarra, fuggiasca
ti stupreranno, ti rapiranno
in una danza di vespe
ti avranno loro.
Sapevi e non sapevi del rovo,
dell’electric piano
come uno squillante lutto innevato,
della rosa canina.
Ed adesso il clan giace in te
che sei ogni componente
come Galata ferito,
come stella separata dalle punte sue.

Ameno caro amen caro vecchio amen
che definisci nettamente
in un “così sia!”
una e una sola possibilità tra le tante.
Caro amen
indice di superbo determinismo o  
macchina rude nel campo Eliseo,
caro giudizio opinione
diapason percosso
sei da bruciare, da sospendere
tu e tutti i nomi che vomiti da cento fumi di bocche.
Siamo rimasti fermi immobili
a cantare la stessa canzone
scuotendo due diversi millenni,
le energie migliori
scolpite in fiori
e voi guardandoli non vi scopriste
bellezza alcuna
malevolezza alcuna o intenzione,
rivolta, circus, maiale.
Non importò,
non importò l’altrui vitreo occhio
in cui il segno si rifletteva,
no, ma che quel fiore fosse impresso
di energia mastodontica
e più nulla.

E più nulla.

Le madri soffocano.
Le madri stanno soffocando.

Ani matti tagliati da dita
che li percossero godendo dalle loro grinze,
voce da un pozzo lontanissimo
che chiamava i soprannomi che usavano i bimbi,
voce spezzantesi, frantumantesi,
abbiate di me, macellai, macellai,
rotti in culo, sgole,
abbiate di me
solo l’infinito di bacetti
tra le braccia della dolcezza,
abbiate di me la clavicola d’oro,
la scapola di piume
e di nuovo
l’infinita tenerezza nel contatto, nel soma. 
Al vecchio clan siciliano
l’estasi nell’essersi riscoperti
sensitivi, piangenti.

Le zie dicevano dei nostri folti baffi,
dei nostri lunghi capelli
che era solo un ridicolo ritornare
con la coda tra le gambe
al santuario degli anni 60, 70, 80, 90.

In chi può sbocciare un amore
che in subitanea fiamma
non si trasformi
in falcetto che spacca tendine,
in filastrocca di demoniaco panzuto inconscio,
in brocca ricolma di legno tarlato e biglie?

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Poi la corda fu tagliata
o uomo o uomo
ti sei arrampicato
ti sei sacrificato
nel punto più alto
cogliendo non da tutte le nuvole
il giusto morso.
Agglomerato di cellule
componi un più grande cosmo
in natura
e dentro di te
può saltare la staffa
il cavaliere spazzato via dalla giostra
per commettere il reato
di capire
di capire
la nostra maschera
e la sua voce
come di una folla
e l’iscrizione che porta su incisa.