venerdì 1 settembre 2017

Il Clan o penultima poesia per Cormac



Clan azzannato, sparso,
anime che come onde concentriche
nate da un punto solo
s’allontanano.
Lasciati nudi in viso al mare
che è un calmo rimasuglio di bisogno.
Emozione abiterà corpo
fino a renderlo cavo,
tale la conchiglia nostra.

Poi parlammo a lungo
dicevamo che il clan non avrebbe retto
che la libertà individuale
non si sarebbe armonizzata a vicenda

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Piangeva portava una parrucca
una bella donna davvero,  
non credeva più nel signoruzzo

Poi, dopo, un altro uomo
sul palcoscenico si coprì gli occhi
con la mano
e disse importantissime parole dimesse,
fu triste e poi fiero.
Fu triste e poi fiero
e non sapeva che danzando e guaendo
stava arriminando pesantemente
vite future lontanissime.
Così decise di morire prima dei trentanni
a Parigi.

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Il clan: vergogna e stamina,
pose da teatro.
Cantautori pregiate le grinze argentate
della nostra seta
che non esiste.
Balcone o sbarre
e poi l’oceano,
alcova impestata di terra al di sotto.

Ti stupreranno, ti porteranno via
il battito cardiaco
ti riassorbiranno
nel girone d’ogni Metropoli
del mondo,
ti faranno schifo le sigarette
o le amerai,
l’otre piena di vino
avrà acerbo dolce sapore
e bizzarra, fuggiasca
ti stupreranno, ti rapiranno
in una danza di vespe
ti avranno loro.
Sapevi e non sapevi del rovo,
dell’electric piano
come uno squillante lutto innevato,
della rosa canina.
Ed adesso il clan giace in te
che sei ogni componente
come Galata ferito,
come stella separata dalle punte sue.

Ameno caro amen caro vecchio amen
che definisci nettamente
in un “così sia!”
una e una sola possibilità tra le tante.
Caro amen
indice di superbo determinismo o  
macchina rude nel campo Eliseo,
caro giudizio opinione
diapason percosso
sei da bruciare, da sospendere
tu e tutti i nomi che vomiti da cento fumi di bocche.
Siamo rimasti fermi immobili
a cantare la stessa canzone
scuotendo due diversi millenni,
le energie migliori
scolpite in fiori
e voi guardandoli non vi scopriste
bellezza alcuna
malevolezza alcuna o intenzione,
rivolta, circus, maiale.
Non importò,
non importò l’altrui vitreo occhio
in cui il segno si rifletteva,
no, ma che quel fiore fosse impresso
di energia mastodontica
e più nulla.

E più nulla.

Le madri soffocano.
Le madri stanno soffocando.

Ani matti tagliati da dita
che li percossero godendo dalle loro grinze,
voce da un pozzo lontanissimo
che chiamava i soprannomi che usavano i bimbi,
voce spezzantesi, frantumantesi,
abbiate di me, macellai, macellai,
rotti in culo, sgole,
abbiate di me
solo l’infinito di bacetti
tra le braccia della dolcezza,
abbiate di me la clavicola d’oro,
la scapola di piume
e di nuovo
l’infinita tenerezza nel contatto, nel soma. 
Al vecchio clan siciliano
l’estasi nell’essersi riscoperti
sensitivi, piangenti.

Le zie dicevano dei nostri folti baffi,
dei nostri lunghi capelli
che era solo un ridicolo ritornare
con la coda tra le gambe
al santuario degli anni 60, 70, 80, 90.

In chi può sbocciare un amore
che in subitanea fiamma
non si trasformi
in falcetto che spacca tendine,
in filastrocca di demoniaco panzuto inconscio,
in brocca ricolma di legno tarlato e biglie?

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Poi la corda fu tagliata
o uomo o uomo
ti sei arrampicato
ti sei sacrificato
nel punto più alto
cogliendo non da tutte le nuvole
il giusto morso.
Agglomerato di cellule
componi un più grande cosmo
in natura
e dentro di te
può saltare la staffa
il cavaliere spazzato via dalla giostra
per commettere il reato
di capire
di capire
la nostra maschera
e la sua voce
come di una folla
e l’iscrizione che porta su incisa.

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