Molecole
Riflettendo su ciò che è nello specchio
e nella luce, una manciata di molecole
si guarda e sceglie.
Ha esaurito le cose da fare,
si è ritrovata a guardare
da una finestra
un fiume lontano, un monumento,
un ponte.
Timidamente esce di casa,
mette fuori un piede – un altro
agglomerato di molecole –
e riscopre nel circostante
qualcosa di croccante,
carico di informazione,
di accrescimento,
di scambio,
esteso per infinite ed infinite lande.
Giunta a destinazione è sudata,
carica di aspettative,
affamata di avventura,
e subito dirige
gli specchi degli occhi
verso i suoi simili
come si lancia una rete
nel mare.
Un’altra manciata di molecole
che non riusciva a stare zitta
si trova in un lungo istante
ad esser guardata, contemplata
d’improvviso.
E cosa dirà, pensava la prima,
quale suono in quei respiri
le cui vibrazioni svaniscono
nelle più grandi di una musica
robusta e barbara
che spinge dalle casse.
Ora le manciate sono dentro a un capanno
e si osservano dialogare,
tutti attorno ballano,
le loro mosse hanno a che fare
con sfere invisibili
destreggiate tra le mani,
alcuni scavano coi piedi
muovendoli
come si muoverebbe
la lancetta di un tachimetro,
altri trotterellano sul posto
tracciando prossemiche,
invadendo prossemiche.
In un mondo dove niente si assomiglia
manciate di molecole
sentono che non riusciranno a riprodursi
per tempo,
che non conosceranno
le mosse del ballo,
come preparare un nido,
e in mezzo a tanto fumo,
circondati da una gioia violenta
il capanno di travi di ferro a vista
è nient’altro che un ventre
vagabondo in un parcheggio grigio
dove le energie si mischiano
in spazi elettrici e vuoti
tenuti insieme da molti nuclei
costretti a incontrarsi.
La manciata di molecole
inquadrata all’inizio
cerca un accendino
pur avendolo in tasca;
attratta dalla luce del lampione
schiva i corpi che nel frattempo
danzano sinuosi,
fin quando si trova
spremuta fuori. La notte, quanto l’ha temuta
quando non poteva domarla
per i troppi predatori
o per la timidezza.
Adesso è un invaso di silenzio
e acque buie
nel più vasto oceano
sfiorato da bagliori siderali.
Due manciate accanto
si sussurrano
in cappotti lunghi e bruni.
Avranno un accendino?
E da questa scusa blanda,
nascerà un contatto?
Si riconosceranno parte
dello stesso vinile?
Con brevi sorrisi, però,
pure densi, si ritraggono,
e la serata finirà per ognuna
in maniera diversa. La manciata
guardata dalla prima, all’inizio,
ad esempio, mossa dalle anfetamine
riderà, le tremeranno le mani,
se ne uscirà con una verità cosmica
definitiva, sebbene solo
per la durata di qualche minuto;
a casa s’addormenterà
col cuscino tra le gambe
e musica lo-fi di sottofondo.
Molte non si rivedranno mai più,
o si rivedranno senza riconoscersi,
e tra queste alcune rientreranno
in bici domandandosi la funzione
della notte, di quella notte,
nei confronti dell’infinito
macroscopico in cui
avevano navigato
sospesi incalcolabili
minuscoli,
ma concreti.
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Hasuganomichi
Lunga strada verso la primavera,
passa il treno, sgombera il paesaggio
dalla fermezza, annacqua il paesaggio
in macchia confusa.
Se qualcosa si riflette sul vetro
e se quel qualcosa sembra uno sguardo
e giusto ad esso abboccare,
e giusto in esso precipitarsi.
Ti ricordi che tra i banchi
tirava corde lunghe una classe
dai suoi occhi alla tua testa
che non si è girata mai
per ringraziare?
Lo fa ancora, dico,
pretendere dalla faccia degli altri
una corda, un getto di luce,
un dardo, una cosa impossibile
come una verità.
Lunga la strada verso la primavera,
la stazione avrà il nome della primavera,
passa il treno, corre il treno,
si allunga il paesaggio,
tutti impiccano il vecchio sé
se non riesce a soddisfare
il cangiante modello: non un odore si sente.
A volte, un sorriso.
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沈む[1]
Oh, 関西[2], e mare che ti circonda
imperituro,
voce nell’ovunque distesa:
ogni equipaggio è perduto.
Vestiti di marrone o spesso di nero
gli umani combattono il titano della faccia
e perdono man mano molti ricordi,
prima indispensabili filamenti
d’allegro cane
sparpagliati ora
come brina nel vento
o abbandonati sassi
in grande ombra.
Sinuoso corallo i tuoi seni,
due acciughe le tue labbra,
grande polipo il tuo sesso
occhi di bue perlacei le cosce
danzavi
e io divenni sale,
erosione,
contesto innamorato dell’incomprensibile.
Non possiamo indovinare la tonalità
del flauto del sole,
l’orchestra di luce frastagliata
demone blu
sulla cresta dell’onda.
Giganti misurarono
le tue acque in nodi,
plancia di ferro
sguardo rosso e fiero
lentiggini le ruggini
sul volto appuntito.
Orgogli di marinai morti
e dei cantieri navali,
armati di tutto punto
per una guerra
che sembrano ancora aspettare,
corazzati e sordi
alla natura della marea
della salsedine che li consuma
e li ingloba.
Quel riflesso arcobaleno
che sul pelo del mare si scorge
è vomitato petrolio, sì,
ma ha un che di grazioso.
Natura che natura muta,
e noi, colpe sofoclee
con destini appuntiti come prue:
tutto si prova a trafiggere
per trovare il proprio riflesso,
o関西.
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布引滝[3]
Poi dea d’acqua,
saetta di fiume
affronta la roccia
e se nell’impatto continuo
con fragore si baciano e stringono
possono capirsi l’un l’altra.
La terra è destinata a essere
solcata
con lentezza.
Si è disegnata una specie
di fica, nello stagno,
e dunque la paura degli altri
e delle loro voci,
l’impulso a nascondere
il cuore
trovano giusto compagno
nel moto a spirale di foglia,
nel circolare specchio del lago,
nel legno.
Tra i cuccioli della cinghiala
il più spigliato e curioso
è scivolato, ha battuto
la testa
ed è morto.
Anche gli animali sbagliano.
Il cadavere del piccolo
ha una tomba d’acqua e foglie;
filtra, una morte non vista,
ogni purezza cristallina
e il batterio originale
che l’abitava
s’è liberato
e corre
dalla sorgente
alle vostre gole secche.
Intarsiata
di rosso acero e giallo ginko
una stagione bellissima
volge al termine.
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Di alcune cose tra cui Amaterasu e Hiroito
O mostro del 2019,
anche l’ultimo degli Ainu
se ne è andato,
dice il giornale,
ed ogni loro freccia avvelenata
l’ha spezzata Amaterasu,
ed ogni loro pianta officinale
l’ha mangiata Amaterasu
per trasformarla in ciliegio
educato ad esibire fiori rosa
nello spettacolo liberale
d’una primavera
geneticamente selettiva.
Ci fu un giorno in cui Hiroito
lesse a tutti, a malincuore,
una poesia di MacArthur.E provò a non dire
a un popolo inventato
adesso in lacrime
che doveva fare un passo indietro
e svestirsi di sua madre Amaterasu,
che doveva disincarnarsi,
rinunciare ad esserne figlio e,
androgino, ad esserla.
*
O mostro del 2019,
la storia è l’evidenza
d’un’inarrestabile necessità
e interminabile danza.
Ci vuole un orecchio enorme
un cuore meditativo
per abbassar lo scudo
alla travolgente odissea,
polimorfa come il suo eroe,
vaga come il suo incipit,
essenziale come mani di Virgo.
Ci vuole un peregrinare continuo,
una strada, dei piedi
di fatica e ardore,
degli occhi che non sono occhi
per osservar
con mente vuota
un solo giro del gran meccano attorcigliato
di quanti e sospiri. Oppure è sempre stato
ben in vista,
e un giorno forse
vedremo il delta
delle vene
del mondo.
Suggerirà l’acqua
come sublime
eterno
ritorno,
la foce come tuffo
verso una risposta
incomprensibile,
le parole come
un gioco
del buffone di corte.
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Nella calca una bimba mordeva
una seppia arrostita,
una donna urlava “Okonomiyaki”
tra Umeda e Kobe
un ragazzo aveva del gel tra i capelli
ma tutti quanti ci muovevamo all’unisono
serpentini
verso il grande Tonno.
Oh, Ebisu, che in questo
pesce enorme, trafitto
e spezzato in coda
sei manifesto.
Prendi i nostri soldi,
salutaci dalle lattine di birra,
proteggi, proteggi, proteggi
l’errore necessario
dilagante
dell’accumulo
e del consumo.
*
Nella liturgia del dio-pescatore
c’era odore di carne e di pesce,
tutt’a lui intorno
ristoratori e tendoni,
circensi, giostrai,
donne affamate, cuoche,
gonne di velluto,
bimbe, mele candite.
Noi due, Europa orgogliosa,
provammo a vedere il Giappone
per com’era, tentando
invano di disperderci,
di sviare in un giardino urbano,
in spazi menomati e reticolari
identici in ogni metropoli:
si accettò lucidamente
la storia, e non più
il suo decadimento,
anche perché
non si riusciva più a capire
da che luogo
potesse mai cadere,
da che condizione
decadere.
L’universo fu allora un’evidente
geometria di segni vuoti
determinati dalla posizione
nella struttura,
ma nel particolare
c’era la festa del dio Ebisu
nuova e antica
e i sapiens sapiens
lanciavano monete
da palmi sudici
sul cadavere del grande Tonno.
Sarebbero state per lui nuove squame
di bronzo e oro e argento
mentre sul fianco
volgeva via lo sguardo
oramai diventando
punto di sordo silenzio
divorante generante
ogni tintinnio ed ogni chiasso.
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Shissō
Poi risalendo la collina
esplodeva il mondo interno
e tutta la sua rabbia
in superbe lacrime
rappresa.
Perché tutte le esperienze venivano a galla di colpo
come un singulto
e perché le scarpe avevi perso in sogno
nella linea di scoglio e alga
sulla soglia di una sfera litica
sospesa galleggiante
nell’acque del mare.
Alle pendici del monte 六甲[4]
trovaste brevi fiori
diramantisi dalla terra franata,
e tra le mani
li conservaste a lungo.
Strapparli alla natura
per salvarne le sembianze…
lei disse di sì, e non se ne parlò più.
So solo che le vostre ciglia
erano forse troppo impegnate
a sfuggire la morte
per cogliere lo schema
e godere del bel vento
della bella terra
muti come attimi,
peli irti a una corrente maestosa.
Ecco, il piede è scomparso
dietro l’ara del tempio
nel fitto boschetto
dimora di energie
mastodontiche e chete
dove neanche il monaco
può entrare.
Fede e mistero volendo,
una campana tintinnerà
un altro yen cadrà nella cassa di legno
iridi serpentine vedrete brillare
dall’oscurità ricolma di tracce e segni
in cui vi inoltrerete,
e mai più tornerete.
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Via degli Dei
Ognuno mosso dal desiderio
argina con le gambe
il fiume della terra
per porsi
sghembo e vacillante
verso l’ebano
della foresta
degli eventi.
Sandalacci, daghe, gladii,
armature d’acciaio, spicule,
le spugne imbevute di posca
sull’antica Flaminia
e sferraglianti legionari
indirizzati al castrum.
Ne senti ancora il sudore
se solletica l’imago al dunque
nella fame di irrealtà
e aleggia quale ectoplasma
ed è fatto dei ricordi della vita stessa
lasciati impressi
su ogni sasso.
Ricordi che guarda caso
sono anche i tuoi.
Ognuno mosso dal desiderio
argina con le gambe
il fiume della terra.
Cammina,
e come una lunga strada
è camminato.
Tutto è animato e si immerge
nell’apostrofo del tu, del lui,
del lei e dell’io,
commosso e attraversato
come ramoscello da acuto becco.
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Civita
Pallida versione stilizzata
di ragazzo dinoccolato,
ossuto nel sole,
raccoglie qualcosa da terra.
“Sono ricco!” esclama
tra le meduse
dipinte a bomboletta
sulle alte mura
della civita.
Poi gioca
col resto della stirpe
a far passare
la ruota di un passeggino
tra i fili elettrici e il muro
come in un antico sport azteco.
Poco più di settant’anni fa
cadde una bomba
e lasciò nella piazza
una pancia cava.
Ma i marinai continuarono ad abitarla,
E i gatti proliferarono attorno
al pesce
e tutto fu dipinto di azzurro
e adornato di reti
e di umiltà
e di violenza a palate.
La civita si è poi fatta gorgo
divorato da catrame
e salsedine,
le sue case strette
rimangono antiche,
le vie piccole
e balorde, abitate da
bimbi di idiomi assurdi,
tentativi di famiglia,
madri bambine
e uomini unti e disidratati
che borbottano ancora
i nomi degli amici morti
e girano intorno
indicando con le dita
i cadaveri dei ricordi.
Uscendo verso gli archi della marina
puoi incontrare
Ferdinando I, re delle due Sicilie,
e non è facile riconoscerlo,
non ha più testa
né nome
la sua effige
di marmo
impastato
con pestilenze aviarie
quali merda di colomba
sul panciotto.
Si è sbagliato di grosso
se pensava
al suo volto
come ben posizionato
sulla statua che l’avrebbe ricordato.
L’acefala fisionomia del suo carisma
indica in un chiasmo fluido
l’albero rosso,
alcuni dicono
che una volta lì
bruciò un barbone
e per te brucia ancora.
Giri dunque a destra
attraverso Porta Uzeda
verso l’urna
barocca e greca
del duomo, caverna scura
dove in segreto
si celebra il potere.
Rinchiuso lì dentro dall’88
alla mercé d’un lusso che aveva rifiutato
c’è Dusmet vestito
da negromante.
Non combatteva forse
per la luce?
Con una flatulenza indecorosa
uscitati dall’ano
forse per le troppe aspettative di tutti
lo saluterai
quale tuo antenato, e gli dirai
mi piacciono le sue mani morte
e il porpora sul nero
assai le dona.
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Volontariamente definita persona
e incastrata nelle reazioni di chi si è difeso per troppo tempo
ora dubita financo della realtà, quando è esterna,
e si calma in un ventre pietoso
e spesso ansima al pensiero
del sistema
e scherza col timore di morire.
E dice nel pensiero a un’altra cosa,
volontariamente definendola
parte di sé e persona,
di costruire e produrre,
di percuotere il corpo affinché suoni bene
affinché produca, produca e funzioni.
Volontariamente definita persona,
ma automatica,
e sempre albergata da un rimasuglio
di infinito
quale un’orda di innominati
che urlano dal fondale
e non sentono ragione alcuna
e amano una luce che mai hanno visto.
Quella luce, dico.
Quella che non fa che sorgere,
intravista
in un racconto di Parise,
esagerata in tutto il suo splendore atemporale,
sorda a noi, magma e roccia fusa
nel magma (che poi è lei stessa).
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Le vacanze
Oltretutto, avevamo anche considerato
di meditare sulle quattro verità,
di perseguire la buddhità
con le birkenstock sulla ghiaia.
Molti dei bambini che partirono
alla ricerca di un dinosauro perduto
ricordano oggi di non averlo
più trovato, seppellito
nel parchetto,
e se li guardi
sono lontani più che mai
anche nell’insieme.
Sott’acqua stamattina
c’era il corpo
d’un occhio di bue,
riflesso prismatico
nel baluginare
del sale marino;
più in là un tentacolo di stella
stava adagiato inconsapevole
su un per noi trono.
Saremo tornati a riva
invasati dal caldo impietoso
non più diluito
dall’onda:
i veri soli
eravamo noi,
cocenti, frapposti
per brillare meglio,
impossibilitati ad ascoltare
in un agone di raggi
sempre più viola.
Capirai…
Tutta questa luce può solo
offuscare,
rinsecchire la mano
che ricercherà
la mano.
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19/11
Parole dalla bocca
come piombi da uno schioppo,
pensava, lui. Litigarono,
per giorni, e per giorni
diedero calci e pugni
da mangiare
al cane in loro.
Una notte trovò il letto già caldo
dal suo lato – riscaldato per lei
col calore del corpo –
e vi s’infilò
accompagnata dall’odore
di una musica araba;
si erse una serpe
si erse ma non trovò che porte
chiuse
e ritornò nella sua cesta di cotone
più sola e intontita che mai.
Al mattino un uomo si ritrovò
incazzato sotto la doccia,
pronto a crescere – diceva-
pronto a tagliarsi i capelli.
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